Dopo più di un anno dal mio arrivo in Italstrade, fui incaricato di seguire, per conto della società, il progetto con cui il Consorzio Palasport, costituito dalle imprese CMB di Carpi, Girola, Italstrade, Romagnoli e Divier Togni, intendeva costruire un nuovo edificio sul luogo di quello crollato sotto una grande nevicata qualche anno prima. L’operazione, come spesso succede ancora oggi in questi casi (vedi l’ipotesi di nuovo stadio dell’Inter e del Milan), doveva sostenersi economicamente non solo con la gestione degli eventi nella nuova infrastruttura (biglietti, inserzioni pubblicitarie e servizi per gli spettatori), ma anche con gli utili di operazioni immobiliari connesse.
Mi trovai di fronte a un progetto redatto negli anni precedenti da Aldo Rossi, indubbiamente interessante, che prevedeva in un unico complesso oltre l’Arena, un albergo di lusso, attività commerciali e uffici. Il progetto si avvaleva della progettazione strutturale di una delle più importanti società di Milano, la DLC, e della consulenza di una società americana esperta nella
progettazione di impianti sportivi. Quel che mi colpì subito fu la monumentalità dell’opera, dotata di una serie di fregi e ornamenti post moderni. Con mia sorpresa il business plan prodotto si basava su un’ipotesi di costo prestabilita, rispetto alla quale non erano stati fatti precisi computi metrici estimativi. Iniziai a calcolarne spese e oneri, prendendo per buone le ipotesi di ricavi (ottimistiche a mio parere, ma non ero io a poter entrare nel merito) e mi risultò che l’operazione fosse comunque in sensibile perdita. Mentre con l’Amministratore delegato, dott. Nanni Fabris, ragionavamo sul da farsi, arrivò la sentenza del TAR a seguito di un ricorso di alcuni cittadini che lamentavano una non rispondenza alla destinazione urbanistica dell’area (solo sportiva). Il TAR lo accoglieva e bocciava il progetto.
Illustrai i miei conteggi al Consiglio direttivo del Consorzio. Si decise di non ricorrere al Consiglio di Stato e di rielaborare il progetto separando l’Arena sportiva dalle aree commerciali e prevedendo per i terreni su cui queste ultime insistevano una richiesta di variante del PRG, per cui il Comune si mostrava possibilista.
Il Consiglio del Consorzio decise di affidare la nuova progettazione all’architetto Oscar Niemeyer, sulla base di un preliminare elaborato dall’architetto Roberto Franzosi di Milano, che prevedeva due blocchi (sportivo e commerciale) completamente separati. Franzosi fece un viaggio lampo a Rio De Janeiro, ma Niemeyer prima di accettare l’incarico si riservò di parlarne con i
rappresentanti delle imprese. Nel giro di pochi giorni, l’ingegner Francesco Chiabrando della CMB, l’architetto Franzosi ed io andammo a Rio.
Arrivammo in Brasile una mattina della primavera del 1992, dopo un volo notturno da Malpensa, avvolti da un clima tropicale e da un’atmosfera magica. Nell’aria della città si sentiva ovunque l’odore caramelloso della benzina ottenuta con la canna da zucchero. C’era un’inflazione a tre cifre e i negozi cambiavano ogni giorno i prezzi della merce esposta. Il nostro albergo si trovava sul lungomare di Copacabana a pochi minuti a piedi dallo studio di Niemeyer. Davanti stazionavano ragazze che chiedevano di dormire in camera con i clienti. Quelle accolte sarebbero rimaste ospiti dell’albergo fino a che il cliente non fosse partito. Stavano tutto il giorno a bordo della piscina a prendere il sole e a chiacchierare fra loro. L’amministrazione
dell’albergo tollerava senza problemi questa sorta di prostituzione. Era già scoppiato l’AIDS e per convincere i potenziali clienti alcune gridavano: “Eu uso dois preservativos ao mesmo tempo.”
L’architetto brasiliano aveva lo studio all’ultimo piano di una palazzina che fronteggiava il mare. Fra noi non c’era un leader dichiarato ma Niemeyer, non so per quale motivo, mi nominò ‘sul campo’ conducendomi nel suo studiolo, contiguo alla grande sala, e, parlando in francese, mi mostrò il libro che stava scrivendo. Era costellato di schizzi di suoi progetti e di curve di donne
nude. Mi spiegò che le forme femminili erano la maggiore ispirazione dei suoi lavori e, dopo aver sfogliato ad una ad una quelle pagine mi chiese “Aimes-tu les femmes?” Io risposi “Bien sur.” “Alors”, concluse lui, “tu es mon ami.”
La sera andavamo, tenendo in tasca solo la fotocopia del passaporto e cento dollari, in giro per locali dove si mangiava e contemporaneamente si svolgevano spettacoli di musica o di balletto. Roberto nel suo primo viaggio, proprio fuori dall’albergo sul marciapiede di Copacabana, fu aggredito da un gruppo di bambini che, puntandogli un oggetto appuntito in gola, si fecero dare tutto quel che aveva addosso. Erano dei ‘randagi’ che vivevano in strada, abbandonati dai genitori, e si arrangiavano in questo modo. Le favelas, da cui provenivano, si vedevamo in lontananza e noi evitavamo di avvicinarci.
Il giorno della partenza chiesi: “Oscar, quanto ti dobbiamo per il tuo lavoro?” Lui mi rispose: “Niente, l’ho fatto perché tu sei mio amico. Dovete solo pagare la maquette. Ti chiedo però un favore. Non invitarmi a venire a Milano, ho paura dell’aereo. L’unico che mi ha convinto a farlo è stato Mondadori per il progetto della sua sede di Segrate, ma ora non me la sento più. Se
svilupperete il progetto rivolgetevi a un mio amico brasiliano che risiede a Parigi. Lui lo seguirà come se fossi io.” Ci abbracciammo con un po’ di commozione.
All’aeroporto di Rio la voce femminile degli annunci era particolarmente sensuale, di una dolcezza e lentezza indimenticabile. Arrivammo a Malpensa che era ancora giorno. Io portavo la valigetta in legno. Le guardie di finanza mi fermarono e vollero vedere cosa c’era dentro. Rimasero a bocca aperta e chiamarono anche gli altri colleghi: “Venite a vedere il nuovo palasport di Milano!”
Quando raccontammo le cose in Consiglio direttivo alcuni, seppur felici di quel masterplan e di quel plastico, malignarono sul fatto che Oscar non avesse voluto farsi pagare e pensarono che la ‘botta’ sarebbe arrivata dall’architetto di Parigi: un modo geniale per evadere il fisco ed esportare dollari.
Qualche giorno dopo Roberto ed io andammo nella capitale francese. L’architetto Costa ci ricevette a casa sua e ci portò a pranzo in un piccolo, delizioso, ristorante sulle rive della Senna.
Era con lui anche la moglie, figlia dello scrittore Jorge Amado, una brillante conversatrice. E, tanto per cominciare, vollero pagare loro il conto. Poi, rientrati a casa loro, l’architetto formulò la sua proposta: una richiesta irrisoria, qualcosa come quindicimila dollari. I maliziosi erano così serviti.
Proprio in quelle settimane era scoppiata Tangentopoli e cadde la giunta del sindaco Pillitteri. In quel clima di caos fra le imprese il progetto fu accantonato. E il nuovo Palasport a Milano non fu mai più costruito. Resta il mistero di quale fine abbiano fatto i plastici di Aldo Rossi e di Niemeyer.
Spero che non siano andati distrutti e che qualcuno se li goda col piacere di mostrarli agli amici. A me di quella avventura è rimasto uno schizzo di Niemeyer, incorniciato in una parete di casa mia.
Oscar è morto il 5 dicembre del 2012 all’età di 105 anni.