Negli anni 60 molte famiglie di dirigenti d’azienda, alti funzionari pubblici, piccoli e medi imprenditori passavano a Rimini uno o due mesi in estate. Prendevano una casa in affitto (alcuni l’avevano in proprietà) in cui si trasferivano mogli, che spesso non lavoravano, e figli.
Era così che fra i liceali nascevano le “compagnie estive”. Nelle quali era forte la presenza di ragazzi del posto.
Il gruppo si componeva a fine giugno, si consolidava a fine luglio e si scioglieva a fine agosto.
I giovani non viaggiavano quanto oggi. Qualche settimana a Londra a studiare inglese per i più fortunati. Qualche viaggio di pochi giorni a New York.
La compagnia per i riminesi era stimolante. C’era uno spaccato del paese emergente e di quello consolidato nel benessere. Poco interclassismo ma apertura ai nuovi arrivati. Un concentrato di emozioni più che di azioni. Qualche amore travolgente la cui prosecuzione era resa impervia dalla ridotta teleselezione e da costi delle telefonate alti o considerati tali.
Col finire dell’estate si restava con due sensazioni forti. La voglia di andarsene. E la certezza che i mesi caldi sarebbero tornati.
La fuga dal luogo natio ha caratterizzato molti riminesi di quella generazione. Figli di uno spirito che Federico Fellini ha incarnato nelle sue opere e nella sua vita.
L’attesa dell’estate successiva era accompagnata da un senso di tristezza. La compagnia si sarebbe ricomposta con molte persone diverse. Con l’assenza di alcuni, magari perché divenuti troppo grandi, e l’ingresso di altri, talvolta frutto di una mobilità sociale che in quegli anni di boom economico era dirompente. Sarebbe entrato il fratello piccolo dell’amica, cui era bastato un anno per diventare adulto, se ne sarebbero andati quelli presi dall’avventura universitaria e dal mondo che questa consentiva di svelare.
Ciò che succedeva in inverno era un’altra cosa. Altrettanto importante ma un’altra cosa. Come succede a chi di vite ne ha due e vuole viverle entrambe.